Creatività

Non far diventare il silenzio un’abitudine

Fin da piccola, mi hanno insegnato più ad ascoltare che a parlare.
Per rendere convincente la teoria, è bastato che parafrasassero Tamburino: “se non sai che cosa dire, è meglio che non dici niente”. Uno degli aspetti affascinanti delle parole, è che non si è mai sicuri che troveranno terreno fertile, ma posso dire che nel mio caso abbiano attecchito perfettamente. Sono certa non l’abbiano fatto con l’intenzione d’impedirmi di esprimermi, ma evidentemente sembrava un buon consiglio da dare ad una bambina, perché non crescesse parlando prima di pensare.

Fatto sta che nel corso del tempo, da un lato sono stata presa come informale psicologa di riferimento, per la mia capacità di ascoltare qualsiasi tipo di confessione, dall’altro si è fatta strada in me la convinzione che in fondo non avessi nulla che valesse la pena d’essere raccontato.
Se lo scrivo ora, è perché mi rendo conto che stare in silenzio non può diventare una scusante dal comunicare.

Mi ci scontro quotidianamente, ogni volta che mi chiedo se palesare un pensiero, partecipare a una conversazione o condividere delle Stories su Instagram. Perché comunicare significa esporsi, mostrarsi, diventare vulnerabili, e anche permettere alle persone di conoscerci. Significa osservare con senso critico, con tutte le responsabilità che questo comporta. Come direbbe Camilla: “è un atto civile”.

Se mi sono trovata a ragionare sul tema, è perché sto leggendo “Una vita come tante” (Hanya Yanagihara), e queste parole mi hanno colpita e affondata:

“Non far diventare il silenzio un’abitudine” lo aveva avvertito Ana poco prima di morire.

Eccolo qui, il concetto espresso nero su bianco in modo così drammaticamente semplice e sintetico. A quante situazioni della vita si può applicare una regola del genere? Ana si riferiva al passato di Jude, che lei gli pregava di raccontare perché non si trasformasse in un peso invisibile. Ma lo stesso vale anche per il silenzio da timidezza, da volontà di non innescare una discussione, il silenzio che crede che tutto sia comunque già stato detto, il silenzio da insicurezza e quello da disinteresse.
Creativamente, un silenzio fine a sé stesso dà come risultato un’opera mancata.

“Una cosa utilissima, che quando insegno in Accademia dico spesso, è di parlare con gli altri della propria storia. Questa è una cosa che mi fa emozionare sempre. Sembra una cosa un po’ da santoni, un po’ hippie, ma ho scoperto che raccontare una storia davanti a una persona e vedere questa persona che mentre tu gli racconti la tua idea ti fa “come continua?”, quando tu la incuriosisci, allora la storia comincia a prendere forma. Se non riesci a parlarne, la storia si perde, rimane nella tua testa e non ha modo di uscire. La storia ha bisogno di essere raccontata e questo ti aiuta anche a capire come dev’essere raccontata, come devi metterla giù…”
(Trascrizione imperfetta dall’intervista ad Alessandro Baronciani nel podcast “Comics will break your heart”, di Michele Foschini)

Lasciando per un momento da parte coloro che hanno il cruccio opposto di non sapere quando sarebbe meglio astenersi dal dire in continuazione, io credo che per tutti gli altri valga la pena abbandonare il consiglio parafrasato del silenzio, e dedicarsi a vivere storie, e non smettere di raccontarle.