Nell’articolo Wondering into Wonder del n30 di Flow, si cita Dijksterhuis, un professore di psicologia alla Radboud University in Olanda, autore del libro “Anyone who doesn’t travel is crazy”. Dal suo punto di vista, uscire dalla comfort zone su base regolare, è terapeutico per la nostra mente e il nostro cuore. E il modo più naturale di farlo, è viaggiando.
Lo shock culturale, l’essere sopraffatti da stimoli, avere un alto grado di tolleranza per l’incertezza e fare esperienze nuove, sono eccellenti “esercizi di stretching mentale”.
Come capita con tutti gli articoli in cui si parla degli effetti benefici del viaggiare, dopo averlo letto ero molto felice. Perché è sempre bello avere nuove evidenze del fatto che una cosa che già ti piace da impazzire, sia anche salutare.
MA.
La lettura è avvenuta durante il lockdown. E questo mi ha costretta a rivedere il tutto da un’altra prospettiva. Che non contemplasse aerei, e neanche due scarpe ai piedi.
Abito da sola in 30mq più terrazzino, e guardandomi intorno mi è sembrato che l’unico modo di praticare la benefica arte del viaggiare fosse facendolo mentalmente. A supporto, una piccola zine che tengo fortemente in considerazione e che recita:
“While it is true that wandering often involves walking, it does not always have to. You can also enter into the wandering mindset while sitting. The stationary wanderer can observe be present, pay attention, and be open to the unknown – all while remaining still.”